Indiani e indianisti

 

Un aspetto interessante e poco conosciuto nella storia del nazionalismo musicale tra Otto e Novecento è senz’altro quello dei compositori americani che decisero di alimentare la propria musica con materiali di provenienza amerindia: Edward MacDowell, Charles Wakefield Cadman, Thurlow Lieurance, Arthur Farwell, George Templeton Strong, Harvey Worthington Loomis, and Carlos Troyer.

Il caso di questi compositori “indianisti” è davvero sui generis nel quadro del periodo storico in cui, un po’ ovunque nel mondo, si cercava di sviluppare una musica nazionale. Anche negli Stati Uniti numerosi musicisti sentivano il desiderio di creare una musica che avesse una connotazione “americana”, ma non c’erano soluzioni facili a cui ricorrere. Pur se il paese era in maggioranza anglofono, rifarsi alle tradizioni orali anglo-irlandesi non pareva indicato per una nazione che aveva cessato di essere colonia britannica. In effetti poi, che queste tradizioni britanniche si fossero felicemente trapiantate e conservate negli Stati Uniti lo si scoprì relativamente tardi, quando Cecil J. Sharp pubblicò la sua famosa raccolta: English Folk Songs from the Southern Appalachians (1917). Antonin Dvorák durante i suoi tre anni di soggiorno in America, a partire dal 1892, rimase comprensibilmente affascinato dalla musica degli afro-americani e disse addirittura: “Nelle melodie dei negri d’America io sento tutto quello che è necessario per produrre una grande e nobile scuola musicale.” Ma questo suggerimento, l’idea cioè di una musica nazionale basata su quella di importazione africana, parve una vera e propria eresia all’élite culturale di allora, che era di formazione squisitamente europea e refrattaria a pensare che potesse mai esserci qualcosa di buono in quelle che chiamava spregiativamente slave songs.  L’atteggiamento di Dvorák fu preso quasi come una provocazione, tanto che Edward MacDowell lo commentò dicendo che: “…camuffare il cosiddetto nazionalismo con i panni dei negri tagliati in foggia boema non sarebbe di alcun aiuto”! Come sappiamo, Dvorák fu però profetico perché di lì a pochi anni si svilupparono generi afro-americani, il blues e il jazz, che nel corso del Novecento conquistarono il mondo e, influenzando ogni forma di popular music, ovunque prodotta. Si tratto di un'onda d'urto musicale che  letteralmente sconvolse il profilo sonoro dell’intero pianeta.

Ma prima che ciò succedesse alcuni compositori, tra cui, anche, proprio MacDowell, provarono a creare una musica americana cercando invece il contatto con le melodie degli amerindi. Non era facile riuscirci, perché queste musiche non erano accessibili a meno di non cercare il contatto diretto in aree disagevoli da raggiungere. Alcuni si rivolsero alla documentazione che antropologi e musicologi stavano cominciando a raccogliere, per esempio, alle registrazioni su cilindro di cera con musica degli indiani Omaha registrati da Alice Fletcher e dal suo informante indigeno Francis LaFlesche negli anni appena successivi al 1890; altri si rivolsero alle melodie (ahimé) “armonizzate” da J.C. Fillmore, che aveva collaborato con l’etnologa Fletcher in qualità di “esperto musicale”; e poi alle trascrizioni di Frances Densmore, e di altri ancora.

Buona o meno buona che fosse la loro fonte, il compito che si prefiggevano era in sostanza una mission impossible, e per ragioni che si compresero bene solo più tardi con lo sviluppo dell’etnomusicologia. Ci si rese conto, in primo luogo, che le musiche amerindie assai poco si prestano ad essere espresse dalla notazione eurocolta. Non sono repertori pensati in termini di “note”, ma piuttosto in termini di flusso. I suoni di cui sono costituite, in ogni caso, sono pochi e – come quasi sempre avviene quando una tradizione fa uso di pochi suoni – a quel punto ciò che diventa importante è come questi sono maneggiati: abbordati, sostenuti, gradualmente abbandonati e fusi col successivo. Poi, a metà del Novecento, un importante saggio di Alan P. Merriam (“The Use of Music in the Study of a Problem of Acculturation”, American Anthropologist, LVII, 1955, pp. 28-34), spiegò bene come contatto e fusione tra due culture diverse possa verificarsi solo quando queste abbiano qualcosa in comune, che faccia da ponte e che renda la comunicazione possibile. Tra musica africana (basata su scale diatoniche e spesso polifonica) e la musica europea le fecondazioni reciproche furono sempre facili e continue (si pensi al blues, al jazz). La musica degli amerindi, invece (per i suoi caratteri di emissione vocale inadatta alla fusione, per le strutture metriche non sempre descrivibili in termini di simmetria a periodicità) è (forse con quella giapponese di corte, gagaku) quanto di più lontano ci possa essere dalla musica europea. Proprio per questo gli stessi amerindi hanno sviluppato una forma di bi-musicalità che non fonde e confonde repertori indigeni con quelli europei. Un Navajo di oggi può benissimo prendere in mano la sua chitarra e suonarci una canzone di Elvis e, più tardi, in altro contesto, cantare invece una ghost dance song; ma non gli verrà mai spontaneo di produrre una ghost dance song ibridata con Heartbreak Hotel! In effetti, uno dei pochi esempi di ibridazione/fusione  tra i due ambiti, e uno dei meglio riusciti, appartiene ad epoca piuttosto recente: quello del gruppo di Jim Pepper, in cui alcuni bianchi e alcuni indiani suonano insieme rock-and-roll, usando però melodie provenienti da quel gruppo di tribù, a cui appartengono i Blackfoot, che si indica come Plains Indians. Di casi simili se ne sono verificati davvero pochi. Anche gli sviluppi recenti della world music hanno in sostanza ignorato la musica amerindia. Paradossalmente (oltre alla inevitabile base di musica africana, per noi facilmente avvicinabile), è stata la musica asiatica (persino il canto “degli armonici” della Mongolia) a rivelarsi più assimilabile dal circuito internazionale (in cui il gusto dell’Occidente peraltro predomina) di qualunque canto Hopi, Zuni o Blackfoot.

Cosa riuscirono a fare allora i compositori “indianisti”? Inevitabilmente, nonostante le buone intenzioni e la loro simpatia per il mondo amerindio, finirono col proporne un’immagine che era solo il risultato di una loro ricostruzione o, meglio, costruzione immaginaria. Anche per questo, nel giro di pochi decenni, l’esperienza si esaurì e si concluse e, come quasi tutte quelle che non producono un vero impatto, fu dimenticata. Ma è un peccato che si sia rimosso questo momento della storia culturale americana, che ci testimonia un caso particolare e interessante di quelle che i testi di storia della musica chiamano Scuole Nazionali. Inoltre, da un punto di vista strettamente artistico, ha poi ben poca rilevanza che questi compositori siano riusciti o meno a metabolizzare i caratteri veri della musicalità amerindia. Poco importa, in generale, cosa i compositori hanno intenzione di fare. A volte i loro più bei propositi si traducono in musica brutta e, in altre occasioni, al contrario, i progetti che a parole paiono i meno convincenti danno luogo a musiche straordinarie (p. es. l’idea demenziale di creare una fusione tra jazz e musica sinfonica ha prodotto fallimenti a iosa e, però, anche, bisogna ammetterlo, la Rhapsody in Blue di Gershwin!). Similmente, nel repertorio creato dai compositori indianisti si trovano tanti esempi di musiche assai ben riuscite e di altre che sono poco più che testimonianza di un esperimento.

Chi ne voglia sapere di più può leggere un piccolo libro del mio amico Dario Müller (Voci e tamburi lontani – La musica ispirata agli indiani d’America, Varese, Zecchini Editore, 2007) dove si trova, con poche varianti, questo mio scritto preparato come introduzione.