Latitudine, longitudine e ibridazioni di ibridazioni
Se c’è qualcosa in cui sicuramente il mondo musicale contemporaneo si distingue da quello di qualche decennio fa questa è una progressiva disponibilità del pubblico ad accettare esperienze musicali diversissime tra loro. Mi vien quasi di parlare di “latitudine” e di “longitudine” perché questa espansione della disponibilità all’ascolto sta avvenendo in almeno due dimensioni. Da un lato si accetta sempre più la musica che ci proviene da altre culture contemporanee situate geograficamente nelle zone più diverse del pianeta; dall’altro si ricerca e si ascolta musica che proviene da un passato sempre più distante. Cento anni fa quando si parlava di “musica antica” si intendeva riferirsi a Bach e a Handel; oggigiorno per musica antica si intende quella del Rinascimento se non addirittura quella medievale, fino a Guillaume de Machaut e Hildegard von Bingen. Viviamo ormai in un’atmosfera culturale onnivora che ci consente di conciliare quasi tutto: dal già citato Machaut a Ravi Shankar, da Stravinsky a Duke Ellington, da Michael Jackson a John Cage, ecc. Abbiamo il talento di metabolizzare nella nostra consapevolezza musicale repertori che non erano nati per convivere l’uno con l’altro e che, anzi, molto spesso tendevano ad escludere il diverso da sé. Nell’Ottocento, per esempio, era difficile per le persone colte di nazionalità italiana o tedesca apprezzare al tempo stesso Wagner e Verdi – cosa che oggi per noi non è per nulla problematica. Tuttora in numerose culture tradizionali o tribali del nostro tempo, la musica dei vicini non è accettata ed è anzi vissuta come “non musica”. Gli ascoltatore occidentali di oggi (o quantomeno un gruppo crescente di essi) è invece capace di comprendere che ogni musica è il risultato di un processo culturale che seleziona determinati materiali e tecniche e li finalizza a particolari scopi, rituali, espressivi, simbolici – artistici (che richiedono di essere prodotti “ad arte”), se così vogliamo dire. Ma questo è un fenomeno piuttosto recente. Ancora negli anni ’70 del secolo scorso, l’autore di questa pagina lo ricorda bene, gli etnomusicologi avevano difficoltà a convincere il vasto pubblico che i canti degli indiani Navajo o i canti epici accompagnati dal gusle nell’area balcanica sono nel loro genere, in rapporto agli scopi che si prefiggono, risultati artistici egualmente pregevoli dei Lieder di Schubert o delle sonate per cembalo di Scarlatti.
Ma l’avere compreso che tutti questi repertori e tutte queste tradizioni hanno un senso musicale e il fatto che noi si sia ora disponibili a porgere l’orecchio per coglierlo, non vuol dire che questa nostra buona volontà debba necessariamente venire premiata da un successo totale. E’ molto difficile per chi ascolti musica indiana o balinese nel proprio appartamento di Lugano o di Basilea, con l’aiuto di un riproduttore di cd, immaginare quale tipo di senso queste musiche potessero avere nel loro contesto originario e nell’occasione-funzione per cui erano state pensate. Ma non importa. Rimane il fatto straordinario che noi sia diventati tanto attivi nella nostra capacità di ascoltare da sapere creare un senso, congruo alle esigenze del nostro vivere di occidentali, che sia collegabile e a quelle strutture sonore che provengono così da lontano – nello spazio o nel tempo. Ascoltare è un’attività creativa – ormai lo si è ben compreso - e sta dunque anche all’ascoltatore la possibilità di creare senso musicale. Il musicista, il compositore, in un certo senso, produce solo dei pretesti perché la creatività dell’ascoltatore possa attivarsi.
In un altro aspetto assai importante l’ascoltatore occidentale di oggi è assolutamente differente da quello di trenta, quaranta o più anni fa. Lo è nell’avere sviluppato il gusto e il piacere di vedere i fenomeni di ibridazione per quello che sono: una forma di creatività. Non crediamo più nella purezza. Sono sempre meno coloro che cercano il “vero” jazz, la musica popolare “autentica” e cose del genere. Finalmente abbiamo compreso che non esistono tradizioni musicali pure o autentiche. La musica “pura” è solo quella di cui ci siamo dimenticati le origini ibride o quella in cui non siamo più in grado di riconoscere i processi ibridativi che le stanno a monte (tutte le culture, tutte le tradizioni musicali sono il risultato di processi trasformativi, a volte drastici e perfino in larga parte distruttivi: sono come delle omelettes fatte con uova strapazzate…). Ed è un peccato che qualche volta succeda di dimenticarsene e di non sapere più riconoscere gli ingredienti. Sarebbe bello saper ascoltare Telemann, Handel, Mozart, Bach con la percezione di quanti e quali filoni stilistici eterogenei hanno nutrito la loro arte. Sono filoni stilistici eterogenei che a volte la distanza temporale rende difficile cogliere: la distanza, inevitabilmente, rende i dettagli meno cospicui. Ma non sempre, per fortuna, sfuggono del tutto. Nel jazz, in Bartók, in Stravinsky, nel flamenco e in tante altre musiche che siamo abituati ad ascoltare oggi i processi ibridativi a monte della loro formazione sono ancora abbastanza vistosamente evidenti.
Questi due aspetti, del modo nuovo di ascoltare la musica che noi occidentali di oggi abbiamo sviluppato (latitudine e longitudine + il gusto dell’ibrido, della contaminazione, del melange) caratterizzano le scelte degli eventi musicali organizzati da Oggi Musica. Questi eventi sono un segnale, a mio modo di vedere (una segnale e una speranza) che il concerto di matrice tardo ottocentesca, che si concentra su di un solo genere, periodo, autore, forma, stile, stia diventando un fenomeno del passato, un fenomeno che forse gli storici della musica di un prossimo futuro studieranno per tentare di capire come mai fosse possibile che tra Ottocento e Novecento l’orizzonte musicale potesse essere così forzatamente angusto.
Oggi musica – Lugano: Concerti d'Autunno 2001