L’epica, tra tradizione orale e tradizione scritta
(Cenobio,
LXVII, 2008, no. 4, pp. 39-48)
“During this century, as I say, the epic tradition
has been saved for the world by, of all places, Hollywood.”
(Jorge Luis Borges, in G. Plimton, a cura di, Latin
American Writers at Work – The Paris Review, Marzo,
2003, Chapter I. )
“Cantami o Diva, del Pelide Achille l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei…”, queste sono le parole di Vincenzo Monti (che da studenti ironicamente chiamavamo “il traduttor dei traduttor d’Omero”, dato che egli non fece riferimento al testo greco) con cui inizia la sua traduzione dell’Iliade. Queste sono probabilmente anche le prime parole che vivide tornano in mente a tutti gli italofoni in associazione al concetto di “poesia epica”. La parola “epica” ci ricorda dunque in primo luogo l’Iliade, poi più generalmente Omero, Esiodo e anche, naturalmente, non appena mettiamo a fuoco i nostri ricordi scolastici, la poesia dell’Ariosto e del Tasso. Eppure, e la citazione di Jorge Luis Borges che ho posto all’inizio di questo scritto aiuta bene a ricordarlo, i territori dell’epica sono assai più vasti. Alcuni di essi, anche se assai meno emblematici di Omero, per esempio l’Ariosto, il Tasso e Cervantes, fanno pur sempre parte del proscenio nell’orizzonte letterario delle persone colte. Altri, penso invece a cicli epici quali la grand’epopea sumero-babilonese Gilgamesch, all’Edda finlandese, alla Chanson de geste, alla Chanson de Roland, al Nibelungenlied e, magari, al Kalevala finlandese, compilato nel 1935 da Elias Lönnrot e reso accessibile al pubblico italiano da Domenico Comparetti con un suo famoso studio del 1891, occupano solamente una posizione satellitare in questo nostro orizzonte. Dato poi che la formazione letteraria che ci è stata data è fondamentalmente eurocentrica, il Ramayana e il Mahabharata dell’India, e il Shahnameh of Ferdowsi Persiano, sono per i più solo dei nomi – quindi, non più nemmeno satelliti, ma planetoidi esterni all’orbita di Plutone.
Eppure, il campo dell’epica si estende ben oltre ancora, ben al di là della letteratura scritta; ed è forse qui che troviamo i suoi esempi più straordinari. Molte,
infatti, furono e ancora sono le società non letterate che mantennero e mantengono la memoria dei loro miti attraverso canti epici trasmessi oralmente (si dice in inglese con bell’espressione:
by word of mouth). Ed è proprio in questo ambito che possiamo cogliere una delle caratteristiche fondamentali dell’atteggiamento poetico epico – il suo forte legame con il processo orale
nel quale affonda le radici. Del resto proprio da ciò ebbe origine la famosa “Questione omerica”. Il primo a sollevarla, François Hedelin d'Aubignac, sostenne nel 1676 che l'Iliade era
una raccolta di canti sparsi, elaborati nel tempo da numerosi aedi, giungendo così a negare che Omero, in quanto entità individuale, contrariamente a quanto si era sempre ritenuto, fosse mai
esistito. Analoga opinione fu espressa nel Settecento da Giambattista Vico (adducendo come prove le numerose incongruenze linguistiche, cronologiche e storiche dei poemi). Queste valutazioni non
furono tuttavia prese in seria considerazione fino a quando Friedrich A. Wolff, nel 1795, le ripropose nel Prolegomena ad Homerum. Dopo di lui le portò avanti la critica romantica,
interpretando la produzione omerica alla luce della propria tesi sull'origine popolare della poesia epica. Quale fascino esercitasse la questione dell’oralità sui romantici lo si verifica appieno
con James Mcpherson (1736-1796), il quale pubblicò nel 1760 – attribuendoli al leggendario bardo gaelico Ossian figlio di Fingal (III desc. d.C.) – i cosiddetti Fragments of Ancient Poetry
Collected in the Highlands of Scotland and Translated from the Gaelic or Erse Language e dichiarati come provenienti da un gruppo di manoscritti dei secoli XII-XVI. Poi nel 1765 i poemetti
popolari apocrifi di MacPherson, Fingal (1761) e Tremora (1762) furono ripubblicati insieme ai precedenti e pure attribuiti al mitico Ossian. Esplose così un fenomeno che pose
le premesse per lo sviluppo dell’interesse romantico per la poesia e la letteratura “del popolo”. A questi falsi canti di Ossian si affiancarono, però, nello stesso anno 1765 che ne vide la
riedizione col nome del poeta, in qualità di solo “traduttore”, le autentiche Reliques of Ancient Englis Poetry, antiche ballate scozzesi raccolte ed edite dal vescovo anglicano Thomas
Percy.
Ritornando ad Omero, oggigiorno è dato per acquisito che i 27.000 versi dell’Iliade e dell’Odissea furono a lungo tramandati oralmente prima di
trovare la loro forma scritta. I poemi omerici costituiscono quindi un vero e proprio ponte tra due mondi, quello della tradizione orale e quello della scrittura e costituiscono dunque uno degli
esempi più affascinanti di quel processo di “letterarizzazione” che, in Occidente è rappresentato al suo meglio prima nell’epica omerica e poi nel canto Gregoriano il quale pure, dopo un processo
generativo che ebbe luogo per alcuni secoli in ambito orale, approdò alla notazione.
Il carattere intrinsecamente orale della poesia epica è peraltro reso evidente dal fatto che, anche quando essa è chiaramente il prodotto di un poeta individuale e
letterato (quando a monte di essa c’è dunque il Kunstwollendi Alois Riegl, vale a dire “l’intenzione estetica” tipica dell’autore letterato), essa tende spesso ad oralizzarsi, a filtrare
cioè nelle tradizioni orali, dove acquisisce quello che il musicologo Walter Wiora chiamava zweites Dasein (un suo secondo modo di essere). Questo è il caso, per esempio, in Italia, del
“cantar ottave” nel Maggio drammatico: cantare strofe di poemi epici e particolarmente dell'Orlando Furioso, servendosi di tipi melodici prefissati (schemi di procedere melodico,
adattabili secondo l’occasione e le situazioni metriche) ai quali si erano anche dati nomi quali: la Romanesca, il Ruggiero, la Follia. In questo caso abbiamo dunque un processo di
“oralizzazione”, di segno contrario a quello citato prima della “letterarizzazione”. I “cantori in ottava rima” manifestano la loro creatività estemporanea in modo simultaneo e coordinato sia nel
testo poetico che nella componente musicale e comunemente osservano un obbligo di rima secondo il quale l'inizio di ogni ottava deve rimare con il distico di chiusura dell'ottava precedente,
secondo lo schema ABABABCC/CDCDCDEE.
A proposito di “oralizzazione” è interessante ricordare l'interpretazione che ne venne data in ambito austro-tedesco. Infatti,
la persistente visibilità di questi fenomeni in quest’ambito linguistico-culturale, indusse i folkloristi della scuola positivista, a formulare la cosiddetta Rezeptionstheorie (John Meier e Hans Naumann in primo luogo) e a ritenere che nella Volksmusiknon vi fosse altro che gesunkenes Kulturgut (migrazione e decadimento) di prodotti dell'alta cultura. Si sarebbe trattato, secondo loro, di un tipo di "discesa" che implicherebbe addirittura una considerevole misura di
distorsione o di degrado, come risultante di zersingen: usura generata dal cantare e "ri-cantare"
senza riferimento alla pagina scritta (il termine corrispondente adoperato dai folkloristi inglesi fu wearing-down). Uno dei sostenitori della Rezeptionstheorie, E. Hoffman-Kreyer, arrivò addirittura ad affermare "Das Volk produziert nicht, es reproduziert nur". Si sosteneva così la
sostanziale non-creatività dei ceti sociali illetterati. La Rezeptionstheorie, dunque, non comprese che la ricezione in ambito orale di un testo (letterario e/o musicale originariamente
scritto) non è un fatto passivo e meccanico ma, al contrario, un processo selettivo in cui gusto, senso della forma, e generale atteggiamento nei confronti dell'arte si esplicano creativamente.
Il cosiddetto zersingen non è quindi altro che l'espressione di un processo creativo che riplasma un prodotto originariamente estraneo in un altro che, a metamorfosi avvenuta, può a buon
diritto convivere con quelli che già da tempo fanno parte della tradizione di accoglienza.
Entrambi i processi di oralizzazione e di letterarizzazione sono assai frequenti ovunque (per esempio,anche, nel campo del melodramma italiano) e stanno
testimoniare come tra i settori della tradizione orale e di quella scritta non siano ermeticamente sigillati e mutuamente esclusivi come si potrebbe ritenere (in Music in the Romantic
Era, del1947, Alfred Einstein ricorda come a Brahms fosse capitato di vedere uno dei suoi Lieder, Im stiller Nacht, pubblicato in alcune raccolte di canti popolari; da buon
romantico qual’era, fu molto gratificato dal pensare che una sua composizione potesse vivere nella musicalità collettiva suo popolo). Oggi comunque si è tutti convinti che la trasmissione orale e
quella scritta non sono fenomeni antitetici e mutualmente escussivi, così come ritenevano i primi studiosi della questione omerica, dal Vico, a Friedrich Wolf, al Lachmann.
Un aspetto interessante della questione omerica (nella quale naturalmente non entro più di tanto, perché di essa
conosco solo quanto interessa l’epica e la tramissione orale, dal punto di vista dell’etnomusicologia) è che essa per la prima volta contesta l’idea veramente occidentale che ogni produzione
poetica debba fare capo ad un ”autore” individuale. La questione omerica quindi, non sarebbe pensabile come "questione", per esempio nell’ambito della cultura indiana, a proposito del
Ramayanae Mahbahrata.
Ma torniamo all’oralità per osservare che di tradizioni epiche oralmente tramandate ne esistono in tutto il pianeta. Che sia così, può bastare a indicarlo anche una
parziale elencazione dei repertori e dei loro nomi: in Grecia i canti a contenuto epico prendono il nome di “canti kleftici”, in Ukraina si chiamano “dumy”, in Georgia “mestwirebi”, in Russia
“bylini”, in Romania “hora lunga”, tra gli Ainu del Giappone essi prendono il nome di “yukar”, ecc. ecc. Il genere epico è quello più estesamente diffuso e, quindi, il più caratterizzante delle
tradizioni orali dell’Asia Centrale. È interessante anche notare che esistono aree culturali nelle quali sono invece, se non assenti, fortemente marginali, per esempio, nei paesi di lingua
inglese. Quando si parla di canti epici si intende, ovviamente, canti narrativi a lunga gittata (possono durare anche ore) e nei quali, per usare la classificazione dei generi letterari di
Northrop Frye, il protagonista può essere superiore agli altri, ma non all'ambiente (nel mito, invece l'eroe, il protagonista, può essere nettamente superiore sia agli altri che all'ambiente, e
allora abbiamo non più l’epica ma piuttosto il “mito”). I canti epici hanno tutti la caratteristica di non essere strofici ma basati sul singolo verso e ogni verso offre un'idea completa, o una
parte completa di un'idea maggiore, e questa è sovente riesposta con altre parole nel verso seguente.
I canti epici sono spesso basati su di un numero limitato di pochi “tipi melodici” costantemente utilizzati e riutilizzabili all’interno di ogni singola tradizione
(nel Kalevala il più noto tra questi tipi melodici viene chiamato, significativamente, la “melodia Kalevala”) e sono spesso accompagnati da uno strumento musicale, in Finlandia dal
kantele (un tipo di salterio), in Bosnia e Montenegro dal gusle (uno cordofono monocorde ad arco), in Grecia dal bouzouki (cordofono a corde pizzicate da un plettro) e
in Corsica dal violino. Il canto epico, specie nell’area Mediterranea, è spesso fortemente melismatico (p. es. le Saetas dell’Andalusia), cioè, fa uso di più note per ogni sillaba, cioè
di quello che nel canto gregoriano vengono chiamati “melismi”. La narrazione tratta in genere una serie di eventi relativi alle gesta di un solo eroe, viene proposta da narratori/esecutori
professionisti o semi-professionisti (veri e propri “rapsodi”), capaci di agganciare l’attenzione del pubblico a volte letteralmente per ore. Nello Ione, Platone paragona
appropriatamente l'effetto del rapsodo che avvince il pubblico con la sua vivida narrazione di scene epiche a quello di una calamita su degli anelli di ferro!
Il canto epico si basa inoltre su di una tecnica detta “formulaica” (e di ciò sarà utile dire qualcosa in più tra poco), e si tratta di un repertorio che viene
giudicato, dai folcloristi e dagli studiosi di letteratura comparata, come dalle radici assai più antiche di quello delle “ballate” (canti narrativi, anche detti in italiano “canti epico-lirici”,
in inglese ballads, in cui gli elementi epici coabitano con una forte componente lirica e, in ogni caso, mettendo insieme numerose ballate non è possibile costruire dei “cicli” e,
quindi, delle entità narrative estese composte da grandi episodi collegabili tra loro).
La questione della composizione “formulaica” ci conduce ad un tema che pochi al di là degli specialisti di folklore e di studi classici conoscono ed è quella dello
studio del canto epico dei “guslari” (suonatori di “gusle”) nel Montenegro condotto da Milman Parry e Albert B. Lord, verso la metà del secolo scorso, e della loro opinione che il repertorio di
questi bardi, capaci di produrre extempore delle performance epiche della durata di qualche ora, rappresenti l'ultimo stadio conosciuto di una tradizione che ha le sue radici proprio in quella
omerica.
Una motivata valutazione, basata su di una accurata analisi delle caratteristiche del testo, dell'origine “orale” dei poemi omerici,fu prodotta da Milman Parry
(1902-1935), il quale riuscì a mostrare in modo convincente che essi fanno uso costante di formule fisse, ed espressioni ripetitive che soddisfano principalmente esigenze metriche e che all’aedo
recitante sicuramente consentivano non solo una più facile memorizzazione ma anche un processo di composizione “orale”. Il suo studente Albert B. Lord poi, come Parry professore ad Harvard,
partendo dal lavoro di Parry riuscì rivoluzionare la questione omerica così come era stata trattata da generazione di studiosi di letteratura classica, i quali avevano studiato l’Iliade
e l’Odissea partendo dal presupposto che a monte di queste opere ci fosse un autore, nel senso moderno della parola e, per giustificare questa presupposizione ricorrevano alle
“costruzioni più ingegnose” per spiegare le caratteristiche peculiari del linguaggio omerico e delle caratteristiche della narrazione. Lord affermò che i classicisti (lui invece era un
folklorista e uno studioso di letteratura comparata e slavistica), non potendosi scostare dall’idea di un autore che stendesse su carta la propria creazione “non riuscirono a rendersi conto che
potesse esserci un altro modo di comporre un poema che non fosse quello noto alla loro esperienza”. Albert B. Lord era partito dallo studio della composizione estemporanea di canti epici in
Serbia e Montenegro. Arrivò alla convinzione che la composizione estemporanea, oltre che essere basata su di un repertorio di elementi narrativi attinti dalla tradizione, si realizzava attraverso
un abile uso di “formule” e per questo parlò proprio di “composizione per formule” (formulaic composition). Per formula Lord intendeva un gruppo di parole regolarmente impiegate, quando
le stesse condizioni metriche si ripresentavano, e capaci di esprime una breve essenziale idea. La composizione per formule, così lui spiegò, consiste nel costruire versi e semi-versi sulla base
di formule stereotipe che vanno combinate di volta in volta secondo le esigenze narrative del contesto. I temi della narrazione, a loro volta, sono gruppi di idee regolarmente usate nel racconto
di una vicenda e utilizzabili anche quando si raccontano vicende simili. Questo si verificava nei canti epici dei guslari e questo stesso processo Lord riconobbe nelle caratteristiche narrative
dei poemi omerici.
Una cosa è sicura, che le formule sono ubiquite e ricorrenti nelle narrazioni epiche di ogni tradizione. In rapporto al Kalevala Comparetti descrive il
loro uso (peraltro non ne colse l’essenzialità per il canto epico in generale e per il suo processo compositivo, come fece Lord invece, spiegando così come potesse un bardo produrre una
esecuzione della durata di alcune ore) in modo assai poetico, dicendo: “Il cantore, il laulaja ripete e crea ad un tempo; la massa di canti che ha nella mente considera e sente come cosa
di tutti e sua; è quella il suo sapere, il suo esemplare, la sua materia e ad un tempo il suo ordigno nell'opera propria. Versi di un canto che noi diremmo lirico ei contesse con un canto che
diremmo epico o magico, e fa anche l'inverso: ei procede in ciò liberamente, come chi impiega per varie occasioni le parole, le frasi, le formole di un linguaggio che è proprietà di tutti e da
tutti inteso. Per questo diritto che i cantori sentono di avere, e assai usano, per la natural vicenda pure che deve subire una poesia commessa alla memoria e propagantesi solo oralmente,
grandissimo è il numero delle varianti che ciascun canto presenta, non solo differendo da cantore a cantore, ma anche un cantore stesso non mai ripetendo due volte lo stesso canto in modo
precisamente uguale, o anche dando oggi legati assieme e combinati in uno canti che ieri dava separati e distinti.” (Comparetti, Il Kalevala, op. cit., p. 45-46).
Albert B. Lord, assai accortamente, non parla mai di “improvvisazione”, una parola che può causare fraintendimenti di ogni genere perché, quando non è usata da chi
abbia familiarità con l’esperienza del produrre musica o poesia in modo estemporaneo, comunica l’impressione che l’artista eserciti una forma di creatività libera al massimo grado, al limite
dell’anarchia. L’estemporaneità è, invece, sempre e ovunque governata da costrizioni di tipo stilistico e costruttivo che provengono dalla tradizione di riferimento. C’è anche da aggiungere, e mi
ricollego a quanto detto precedentemente in queste pagine, che “oralità” e “scrittura” sono tipi ideali nel senso inteso da Max Weber, cioè, nella loro forma pura e assoluta, non esistono nella
realtà. Improvvisazione e interpretazione di un testo (che esso sia scritto o sia un “oggetto mentale”) possono essere dunque considerati come estremi di un continuum, all'interno del quel
esistono infinite graduazioni di casi non ideali ma, invece, “reali”. Non esiste dunque l'improvvisazione totale, come non esiste la riproduzione totale e completa di un testo scritto (esiste
naturalmente la riproduzione fonografica di un brano; ma anche in questo caso, il processo della ricezione crea delle differenze di effetto...). Comunque, anche se mai usa il termine
“improvvisazione”, Albert B. Lord spiega chiaramente come l’abilità di comporre rapidamente dei guslari si basi sì sulla preventive memorizzazione di numerosissime formule stereotipe, ma anche e
soprattutto sul saperne creare di nuove per analogia usando gli schemi consolidate dall’uso tradizionale.
Occorre aggiungere ora che le teorie di Milman Parry e Albert B. Lord, non sono unanimemente accettate. Più volte voci critiche hanno osservato che un’alta
concentrazione di formule stereotype sono riscontrabili anche in poesie e poemi composti da un autore letterato. Si è così sostenuto che la semplice presenza di un linguaggio fortemente ricco di
formule non costituisce una prova della sua origine nel processo orale. Tutto ciò è certamente vero. È però altrettanto vero che la composizione estemporanea di entità narrative di lunga gittata
non è possibile e, quindi, non si riscontra mai, in assenza di procedimenti formulaici. Rimane quindi assai bella e avvincente la tesi di Parry Lord che Omero possa essere semplicemente stato un
aedo, erede di una ricca tradizione il quale, vissuto nel momento in cui la poesia sempre più cominciava ad essere scritta, decise di trascrivere le proprie performance orali a loro volta nutrite
dal repertorio narrativo della tradizione nella quale era cresciuto. Qualcosa di simile ad Omero fece in tempi moderni Elias Lönnrot assemblando il Kalevala – solo che lui non era un
bardo e utilizzò quindi solo le performance altrui. Similmente avvenne di certo con il canto Gregoriano quando la notazione musicale cominciò ad essere intesa come una guida prescrittivi e non
più come un semplice aiuto mnemonico e numerosi portatori della tradizione iniziarono a scriverlo. In tempo molto più recenti, in pieno periodo romantico, Clara Schumann, che aveva sempre
improvvisato, decise di trascrivere alcune di queste sue performances e nacquero così i suoi preludi (vedi Valerie Woodring Goertzen, 1998). I passaggi tra l’oralità e la scrittura, e viceversa,
costituiscono uno dei processi più affascinanti e forse più caratteristici della cultura occidentale. Certamente il campo dell’epica è uno di quelli in cui queste transizioni e ri-transizioni
possono meglio essere viste e studiate. Ma non dimentichiamo comunque che – come Borges ci aiuta a ricordare – l’epica è tutto questo e, come anche gli altri contributi per questo numero di
Cenobio ben mostrano, molto altro ancora.
BIBLIOGRAFIA:
Domenico Comparetti, Il Kalevala o la poesia tradizionale dei Finni. Studio storico critico sulle origini delle grandi epopee nazionali, 1891 (Ristampa
anastatica, Milano, Guerini e Associati 1989).
Edda (Die), Übertragen von Felix Genzmer, Düsseldorf/Köln, Eugen Diedrich Verlag, 1964.
Giovanni Kesich, I poeti contadini (con il saggio "Cantar l'ottava" di Maurizio Agamennone), Roma, Bulzoni
1986.
Northrop Frye, Anathomy of Criticism, Princeton University Press, 1957.
Valerie Woodring Goertzen, "Clara Schumann's Preludes", in In the Course of Performance. Studies in the World of Musical
Improvisation, Chicago, The University of Chicago Press, 1998, pp. 237-260.
Carl Lindahl, "Recent Folkloric Approaches to Oral-Formulaic Theory," Folklore preprints Series, Vol. 6, No. 5, 1979, pp.1-20.
Albert B. Lord, The Singer of Tales, New York, Atheneum, (1960)1971.
Tullia Magrini (a cura di), Il maggio drammatico. Una tradizione di teatro in musica, Bologna, Edizioni Analisi 1992.
Bruno Nettl e Melinda Russell, In the Course of Performance. Studies in the World of Musical Improvisation, Chicago, The University of Chicago Press, 1998. Charles Segal, Singers, Heroes, and Gods in the Odyssey, Ithaca & London, Cornell Univ. Press, 1994.
Milman Parry, "Studies in the Epic Technique of Oral Verse-Making, I: Homer and Homeric Style", Harvard Studies in Classical Philology, XLI(1930), pp. 37-147; II: "The Homeric Language as the Language of an Oral Poetry",
ibidem, XLIII(1932), pp. 1-30.
Jeff Pressing, "Improvisation: Methods and Models", in John A. Sloboda, Generative Process in Music - The Psychology of Performance, Improvisation
and Composition, Oxford, Clarendon Press, 1988.