Zoomusicologia e animalismo (1)

 

Perché ci affezioniamo a cani e gatti come fossero persone? E quando muoiono, soffriamo come alla perdita di un congiunto? Se ponessimo la domanda al filosofo Peter Singer, la risposta sarebbe scontata: perché sono “persone”! Lo direbbe forse con ancora maggiore veemenza di quanto sia solito, se sapesse (ma è noto a pochi) che da trent'anni esiste un ambito di ricerca detto “zoomusicologia”. È una disciplina che ci ha fatto comprendere parecchio sulle capacità cognitive degli animali non-umani.

 

Ebbene sì, chi come me si interessa a queste cose, tenta di divulgare la notizia: alcune specie animali sono...musicali. Tra queste, le balene megattere proprio eccellono: producono configurazioni soniche affascinanti, utilizzando processi compositivi orali, esattamente identici a quelli che conosciamo nelle culture umane. Fanno riferimento ad una tradizione, a costrizioni stilistiche (a volte infrante da individui creativi o devianti), all'accettazione o rifiuto del gruppo di riferimento. Sulla base di tali processi culturali, lo zoomusicologo può solo concludere che sono ben in grado di intendere e volere. Prima imparano, poi praticano, aggiungono un contributo individuale – evidentemente, sanno quel che fanno. 

 

Prendendo in esame altre forme di capacità cognitiva, Peter Singer sostiene che numerosi animali non-umani siano da considerare “persone”, capaci di intendere e volere, nell'ambito di quelle attività che dal punto di vista evolutivo si sono rivelate per loro paganti – come nel caso degli umani. Peter Singer e altri che lo seguono, come Markus Wild, sono filosofi. Gli studiosi di etologia come lo furono Lorenz e Tinbergen percorrono altre strade, e ci danno informazioni supplementari sulle più sorprendenti forme di intelligenza animale che man mano identificano. Così sappiamo adesso che persino le sardine e i merluzzi hanno una loro personalità individuale, che li induce a valutare scelte differenti in situazioni simili (ogni individuo si porta dentro un suo proprio vissuto, mai duplicabile). Constantine Slobodchikoff sostiene addirittura che quei roditori americani detti Prairie Dogs, avrebbero un linguaggio capace di esprimere pensieri astratti.

Poi c'è la grossa questione della sofferenza animale. Cartesio e Malebranche la negavano. Etologi e biologi sono oggi talmente convinti del contrario, che il dibattito si è spostato in ambito botanico. Alessandro Mancuso, dell'Università di Pisa sostiene che le piante non solo soffrono ma, come aforisticamente spiega: “vedono senza avere occhi, sentono senza avere orecchie, pensano senza avere un cervello.” Sicuramente, in questo, sono superiori a noi animali, dotati di capacità localizzate in organi specifici; basta così una piccola emorragia cerebrale...e siamo fritti. 

 

A questo punto, non ho dubbi. Gli animali non-umani, sono capaci di intendere e volere, sviluppano tradizioni culturali locali, soffrono e avvertono quella “cognizione del dolore” tanto ben descritta da Gadda. Di fronte alla nostra propensione a torturarli e ucciderli (ogni anno ne facciamo fuori circa 1500 miliardi), essi stra-me-ri-ta-no protezione giuridica. Mi domando piuttosto se la specie più forte, homo sapiens, che si autoproclama “superiore”, e si ascrive il diritto di infierire su quelle deboli, meriti veramente di essere protetta. 

(1) questo articolo è apparso nel Corriere del Ticino il 3 febbraio 2017