La chiamano 'popolare'!
(In occasione di un dibattito dedicato ad una raccolta di musica 'popolare' a cui non me la sono sentita di
partecipare)
Caro Amico,
mi rammarico di non aver potuto accettare il tuo gentile invito alla tavola rotonda che avrà luogo prossimamente. Ti scrivo allora questa lettera: un piccolo
contributo di cui magari un giorno potresti tenere conto. Siccome poi non appartieni alla repubblica dei musicologi/etnomusicologi, penso che la questione che ti espongo qui sotto potrebbe forse
anche un po’ divertirti.
Ti spiego allora che, se non avessi avuto un impegno di lavoro non rimandabile, sarei venuto a questa tavola rotonda. Incontrare o re-incontrare le persone che
saranno presenti sarebbe stato un gran piacere. E però la formulazione del tema mi avrebbe messo a disagio, perché contiene l'ormai vecchia dizione 'musica popolare'. Il disagio sarebbe nato dal
fatto che mi è difficile discutere funzione e identità di qualcosa che a guardar bene, in fondo…non esiste! Qui non ci troviamo di fronte ad un oggetto reale, detto “musica popolare” che potrebbe
forse essere meglio indicato altrimenti. Abbiamo invece a che fare con un caleidoscopio di cose che non è giusto riporre nella stessa cesta. A lungo lo si è fatto, ma per motivi che poco hanno da
spartire con la ricerca di conoscenza. Il termine “popolare”, oramai, sempre più lo si usa con connotazione storica: per indicare un modo ideologico, otto-novecentesco, di considerare un gruppo
di repertori, estremamente eterogenei tra loro, i quali senza pregiudiziale ideologica non offrirebbero ragione per essere visti come entità collettiva. In altre parole: non esiste nulla che
possa in modo scientificamente utile definirsi “musica popolare”. Non si tratta quindi di sostituire l’aggettivo “popolare” con altro più appropriato, perché qui abbiamo una parola a cui non
corrisponde un oggetto reale. Coniare una parola non vuol dire inventare una cosa. Quando il comico italiano Walter Chiari inventò il nome del Sarchiapone, per una sua leggendaria scenetta, non
per questo l’animale fu posto in essere; non esisteva prima e non esiste adesso. Similmente, la musica “popolare” non esiste, non è mai esistita e non potrebbe nemmeno esistere. Non potrebbe
perché ogni definizione di “popolo” risente del contesto in cui viene formulata (la comunità dei cittadini, con esclusione dei minori, donne e schiavi dell’antica Roma; gli iscritti alle
corporazioni di mestiere della Firenze rinascimentale; l’identità etnico-spirituale della nazione di Herder e dei Grimm; le classi subalterne di Antonio Gramsci; la popolazione rurale e
illetterata di Béla Bartók). Appropriatamente l’Encyclopedie parlava di “popolo” come di un nome collettivo di cui è difficile dare una definizione, poiché di esso se ne formano idee
diverse in diversi luoghi, in diversi tempi, e secondo la natura dei governi. In ragione di questo ben disse Goethe: “Man spricht so oft den Namen Volkslieder aus und weiss nicht immer ganz
deutlich, was man sich dabei denken soll”! Ciò che indubbiamente esiste è invece l’espressione “musica popolare” e la sua lunga storia. È un prodotto romantico-marxista (e il marxismo, come
suggerisce Foucault, possiamo ben vederlo come filiazione romantica). L’espressione fu energicamente promossa dal nazionalismo tedesco, per la necessità di avere un termine polarmente opposto a
quello di “musica colta” o Tonkunst (un altro a cui non corrisponde alcuna realtà definibile) piuttosto che Musik. Su questi due concetti polari interdipendenti (non si può avere l’uno senza
l’altro) si costruì l’identità culturale della Germania: creazione individuale e immortale dei grandi geni da un lato e, dall’altro, l’espressione collettiva del patrimonio etnico-spirituale del
popolo – l’humus che nutre gli artisti individuali in modo più o meno mediato. Non sorprende allora che i più grandi autori di “musica colta” (con termine non meno raccapricciante detta anche
“classica”) possano solo essere tedeschi e che la Volksmusik, espressione di una Kultur in cui confluiscono identità di stirpe e specificità religioso-spirituale di un popolo-nazione, si realizzi
in modo paradigmatico solo nell’area germanica; altrove appare invece una sorta di fritto misto meno utilizzabile (tanto che in Italia non ebbe alcun ruolo nel promuovere l’unificazione
nazionale). L’interpretazione marxiana ha poi provato a universalizzare il concetto e ad applicarlo anche dove, dal punto di vista germanico non c’era Kultur ma, invece,
Zivilisation.
E’ importante davvero tener presente che i due concetti, “musica colta” e “musica popolare”, assunsero il rilievo che conosciamo solo nel corso dell’Ottocento e
solo in rapporto l’uno con l’altro. Era cruciale per il nazionalismo di allora classificare la musica in base alle sue origini (ed ecco come emerge la questione dell’autenticità che tanti fiumi
di inchiostro ha fatto poi versare). Tutta questa è Kulturgeschichte riferita a grandi spanne. Dal punto di vista musicologico il problema fu che questa idea di “musica popolare” venne
applicata fuori dall’area germanofona come rete acchiappatutto (generi, repertori e stili fondati su tecniche produttive e funzioni totalmente differenti) accomunati solo (e nemmeno sempre)
dall’oralità; con l’idea che l’oralità venga dal “basso” – come se poi le persone letterate che stanno “in alto” non fossero pure portatrici di una sostanziosa cultura orale. Con questa sorta di
cortina fumogena dinanzi agli occhi era difficile guadagnare conoscenza al di là di una tassonomia di forme e funzioni, alla maniera di Linneo. In tale modo non si colsero quelle grandi
connessioni che rivelano come, per esempio, i Tenores della Sardegna abbiano più aspetti in comune con i mottetti di Machaut che non questi ultimi con le cassazioni di Haydn; e come il Nigun
Chassidico sia più facilmente assimilabile al concetto rinascimentale di messa-parodia che non ai cori Klapa della Croazia o agli Anents degli Shuar nell’Amazzonia.
Le distinzioni che contano (perché verificabili), al di là di quella fantomatica tra livello “colto” e livello “popolare”, sono invece altre (scusa se ora uso il
linguaggio dei musici): quella tra Darbietungsmusik o Umgangsmusik (bei termini proposti da Heinrich Besseler oltre mezzo secolo fa), tra musica partecipativa o
professionalmente monopolizzata, corporea o decorporeizzata, riproduttiva di oggetti mentali oppure realizzata con strategie applicabili strada facendo, che contiene ridondanza random o
ridondanza ciclica, ridondanza distribuita o localizzata, a testura piatta o prospettica, ludica o non ludica, oralizzata o letterarizzata, da ambientare in panorami sonori lo-fi oppure hi-fi, in
cui il music maker è in posizione di autorità, di sudditanza o di dialogo paritario nei confronti della tradizione di riferimento (un po’ sulla falsariga della classificazione dei generi
letterari di Northrop Frye). Queste, e l’elencazione non è certo completa, sono differenze correlate a modi molto differenti di sentire e vivere il suono organizzato. Molti in passato, lo
sappiamo bene, hanno usato la dizione “musica popolare”. Ma questo era assolutamente normale per gli studiosi nati nella prima parte del novencento. Tuttavia, proprio perché applicavano una
categoria che oscura differenze essenziali, loro stessi probabilmente non si resero pienamente conto della straordinaria ricchezza di quanto avevano raccolto sul campo. Molte delle loro raccolte
non contengono musica “popolare” (whatever that means...) ma un vero e proprio piccolo multiverso in cui quasi ogni processo musicale possibile è rappresentato. Oggigiorno, grazie alla posizione
storica in cui ci troviamo, possiamo guardare a quelle raccolte con altri occhi. Sarebbe quindi peccato continuare a descriverle con un termine comprensivo, non verificabile empiricamente, che ce
le fa pensare come un contenitore di cose che abbiano rapporti tra loro e non, per fare un esempio, con Wagner o Cage – perché spesso è vero proprio il contrario. Proprio perché viviamo una
stagione culturale successiva, possiamo ora rendere onore al lavoro fatto dai ricercatori del passato evidenziando quello che loro non potevano cogliere; proprio come facciamo da tempo con i
compositori del passato (oggi possiamo apprezzare Bach, Beethoven o Brahms, assai più di quanto loro potessero apprezzare se stessi).
In conclusione: relegando sullo scaffale della storia il concetto fuorviante di “musica popolare”, una cortina fumogena che ostacola i guadagni conoscitivi invece
di favorirli, le tavole rotonda come quella che hai organizzato potrebbero aiutarci a comprendere molto meglio quello che la ricerca dell'ultimo secolo ci ha dato, al di là delle costrizioni
ideologiche di chi quella ricerca ha prodotto.
Un saluto cordiale da Marcello