Aggettivi che non servono alla musica
Non amo gli aggettivi. Non li amo perché sono pericolosi. Tra le parti del discorso sono la più rischiosa, perché generano spesso l'impressione di dire qualcosa
- quando in realtà si dice poco o nulla.
Recentemente un critico (si dice il peccato, ma non il peccatore) ha scritto che un pianista, a lui evidentemente gradito, produce un "legato onirico". Se io
replicassi affermando, invece, che il legato di quel musicista è cristallino, granitico, oppure, fatato e soffice, chi mai potrebbe far da giudice e decretare chi ha ragione o chi ha torto?
Nessuno! Questi aggettivi, pur così diversi tra loro, usati così, esprimono in fondo solo un unico significato: che un certo modo di suonare piace molto a chi ne scrive. Si ricorre dunque ad un
aggettivo ricercato per dire qualcosa di assai semplice.
Dai critici musicali mi aspetterei di più. Mi piacerebbe che evidenziassero caratteri verificabili di un brano o della sua performance; aspetti che possono sfuggire all'ascoltatore
disattento. Questo mio desiderio, lo dico con vero rammarico, è raramente soddisfatto. Il rammarico c'è, perché le aggettivazioni fantasiose non mi conducono a guadagni conoscitivi. Se leggo uno
scritto critico mi aspetto invece di imparare qualcosa. Quale altra ragione potrebbe mai esserci per indurmi alla lettura?