Un’anatra ad Ascona:
raccontino filosofico
Il filosofo americano Robert Nozick, rispose una volta in modo brillante a quei relativisti, i quali sostengono che la verità dipende solamente dal punto di vista
da cui si osserva la realtà. La sua risposta fu che tale affermazione, cioè “che tutto è relativo”, può solo essere “assoluta” (nel qual caso si smentisce da sola) oppure “relativa” (nel qual
altro caso non ha alcuna rilevanza di carattere generale). Sono d’accordo con lui. Non tutto è relativo. Però, nel campo della cultura molte cose lo sono. Per esempio, è difficile comprendere
l’estetica di una persona, di un gruppo sociale, di un popolo, se non ci si cala nel suo stesso vissuto, nella sua esperienza storica, nella sua Weltanschauung. Forse questo vale anche per le
numerosissime specie di esseri viventi che popolano il nostro pianeta. Non le comprendiamo perché poco o nulla sappiamo di come vedano il mondo.
A tutto questo, cominciai a pensarci qualche tempo fa. Mi trovavo ad Ascona, in Piazza Motta, sul lungolago quindi, dove è sempre possibile vedere tante bellissime
anatre. Per fortuna, in quel luogo i cacciatori non effettuano i loro “prelievi” (nella nostra società, in cui la criminalità si chiama “disagio”, in cui odiosi atti di sadismo perpetrati su
scala industriale vengono definiti “infrazioni ai diritti umani”, non sorprende che l’uccisione pianificata di animali diventi un semplice “prelievo”, oppure un “alleggerimento” della loro
popolazione). Spesso avevo osservato queste anatre, accorgendomi di quanto fossero diverse l’una dall’altra e di come ciascuna abbia una sua evidente individualità. Le ho spesso osservate con
grande interesse ma, un giorno, appunto, mi capitò di essere invece proprio io oggetto di esame da parte di una di loro.
Era estate, faceva caldo, ero seduto su una panchina, leggevo il giornale, e un’anatra che si era avvicinata, mi si fermò proprio di fronte e cominciò ad
osservarmi. Forse per farlo meglio, per meglio rendersi conto della stranezza dell’oggetto di questo suo temporaneo interesse, ogni tanto si spostava un poco a destra o un poco a sinistra; e da
quel differente punto di vista riprendeva a guardarmi attentamente. Quasi ebbi l‘impressione di leggere i suoi pensieri. Quasi mi sembrò che dicesse: “Ma quanto sei brutto. Non hai un becco, non
hai le mani palmate, non sai nemmeno volare – conciato così come sei, cosa ci stai a fare a questo mondo!” Chiaramente era la mia immaginazione che lavorava. Mi aiutava però a comprendere che,
sicuramente, dal punto di vista di un’anatra, che vola e si sa orientare a livello planetario, un essere umano come il sottoscritto che addirittura si perde nei sobborghi di Zurigo, deve apparire
inevitabilmente come un essere inferiore. Un essere umano pensa che le anatre siano inferiori, perché nessun’anatra ha mai composto una sonata per pianoforte (ma poi quanti, anche tra i
musicisti, lo sanno realmente fare…). Le anatre sicuramente considerano la cosa irrilevante e osservano invece quello che noi umani non sappiamo fare. Punti di vista per l’appunto. Ma i punti di
vista contano, e contano molto, specie nelle questioni della cultura e dell’arte.
Mi viene in mente, a questo proposito, il racconto di un importante musicologo del secolo scorso, Curt Sachs, il quale un bel giorno conobbe un musicista di
provenienza balcanica, emigrato in Germania, esperto suonatore di Gusle (quello strumento ad arco che si utilizza per accompagnare il canto di lunghe e complesse storie a carattere epico). A
questo musicista di tradizione popolare capitò di ascoltare in concerto nientemeno che la Nona Sinfonia di Beethoven. Si può ben comprendere quanto fosse curioso Curt Sachs di sapere quale
impressione ne avesse tratto. Posta la domanda, arrivò una sorprendente risposta, perché il suonatore di Gusle disse che si trattava di musica tutto sommato gradevole, anche se, in fondo,
piuttosto sempliciotta. Curt Sachs che riferisce l’interessante aneddoto in un suo famoso libro ("The Wellsprings of Music", The Hague, Martinus Nijhoff, 1962), commenta con grande intelligenza e
sensibilità che questo musicista non era sicuramente né sciocco né incompetente, ma semplicemente giudicava con lo standard di un’altra cultura. Si può ben comprendere che un artista abituato a
produrre musica metricamente complessa, in cui si producono abitualmente agglomerati di misure irregolari 11/6, 5/9, 7/8 e via dicendo, dopo pochi minuti di musica eurocolta che si ostina a
mantenere un semplice 2/4, inevitabilmente comincia ad annoiarsi e a perdere la pazienza. Di certo quel suonatore di Gusle, proprio perché la sua cultura d’origine, come ogni cultura del resto,
aiuta a vedere alcune cose e ne rende invisibili altre (la realtà è talmente complessa che nessuna cultura – per fortuna – può farcela vedere tutta; ne rimarremmo allucinati e sopraffatti), non
gli ha consentito di vedere le complessità della musica beethoveniana. Queste non risiedono nelle sue aggregazioni metriche (che sono realmente piuttosto semplici) ma, invece, per esempio, nello
sviluppo tematico.
Abbastanza simile, nella sostanza, è la storia di quell’Inuit (una volta li chiamavamo eschimesi), il quale intervistato dall’antropologo Franz Boas, dopo avere ascoltato da un disco musica sinfonica europea, lui che era abituato a canzoni brevi, di poche note (in cui però ogni nota è centellinata e calibrata fino nei più minimi dettagli) esclamò: questa musica è fatta di tante, tante note; ma non per questo è migliore di quella che faccio io! In altre parole, la quantità delle note non ne garantisce la qualità. Vorrei proprio che su questo riflettessero molti compositori, prima di intraprendere la stesura di impegnativi lavori che richiedono solisti, coro, e poderosa orchestra. Spesso sarebbe meglio accontentarsi di scrivere una semplice canzoncina, da accompagnare con chitarra e mandolino.
Tutte queste cose avrei voluto poter spiegare a quell’anatra che incontrai ad Ascona, per farle comprendere come mai, pur non avendo un becco, pur non avendo le mani palmate, pur non sapendo volare, la vita è pur sempre da accettare…anche quando viene data ad esseri limitati e, forse in qualche modo inferiori, come il sottoscritto.