Johann Sebastian Bach può salvarci la vita?
In un libro il pianista Rahmin Bahrami racconta la sua esperienza di interprete
(Corriere del Ticino, 7 marzo 2013, p. 39)
■ Il recente libro di Rahmin Bahrami, Come Bach mi ha salvato la vita (Milano: Mondadori, 2012), è singolarmente interessante per ragioni che il suo stesso
autore probabilmente non sospetta e, se mi leggesse, non condividerebbe nemmeno. L’autore è un pianista di buona visibilità, esibitosi l’anno scorso anche a Lugano.
È di origine iraniana, educato musicalmente in Italia e ormai da anni risiede in Germania. Nel libro ci racconta l’avventurosa storia della sua vita e la sua
passione per Johann Sebastian Bach. Si legge piacevolmente, con partecipazione e simpatia. Ne emerge una testimonianza esemplare di quel processo che in antropologia si dice ricostruzione
dell’identità. Un’identità culturale si ricostruisce, per esempio, emigrando, quando si sviluppa un senso di appartenenza per il Paese che ci accoglie, il quale inevitabilmente genera
estraneazione per quello d’origine. In altre parole, Rhamin Bahrami è ormai un musicista europeo.
È indicativo che la musica persiana classica, il Radif, non riceva nel suo libro nemmeno la più sbadata e marginale menzione; neppure come memoria o nostalgia per
un valore perduto. Occorre aggiungere che la famiglia di Bahrami, come altre di classe medio-alta nel Medio-Oriente, faceva parte di uno strato sociale già in certa misura occidentalizzato, in
cui le musiche locali venivano percepite come folklore; anche nel caso di tradizioni colte come quella del Radif (si potrebbe sostenere si tratti di una delle musiche più belle al
mondo).
Erotomane e tolemaico
Bahrami, invece, tratta esclusivamente del suo compositore preferito: Bach. Abbonda in aggettivi ma poche delle sue riflessioni sono in qualche modo verificabili.
Ci offre un’immagine di Bach integralmente spirituale. Tralascia, per esempio, il Bach erotomane, quello che constrinse due povere donne a partorire venti figli (all’epoca in cui un parto poteva
durare tre settimane; e se il nascituro moriva nell’utero, si estraeva con uncini, un pezzo alla volta). Non ci fa intravvedere nemmeno il Bach incapace di corrispondere alle esigenze del proprio
tempo, o quello chiuso alla teorizzazione di Rameau che poi aprì la strada al moderno uso della tonalità maggiore- minore: Alberto Savinio osservò una volta che, pur essendo Bach vissuto in pieno
Settecento, non conobbe le grandi aperture intellettuali che vennero con Galileo e Copernico e la sua anima rimase tolemaica.
Il grande tema di quanto la rivalutazione ottocentesca di Bach fosse legata al nazionalismo tedesco è pure ignorato da questo pianista che, romanticamente, crede
nei capolavori portatori di un senso intrinseco che trascende coordinate di spazio e tempo.
Manca infine quel Bach, a quanto sembrerebbe, incompetente a giudicare la musica del proprio tempo; dato che gli idolatri di Bach, Bahrami compreso, non degnano di
grande attenzione i compositori che Bach maggiormente apprezzava, Fasch e Buxtehude per esempio.
L’immagine sacrale di Bach proposta in questo libro si incornicia poi con riflessioni sul ruolo dell’interprete che – a questo punto lo si può immaginare – è visto
come il sacerdote in grado di rivelare ai mortali il verbo divino e così genera – la parola è di moda – emozioni; come se non ne avessimo tutti già abbastanza per conto nostro di emozioni; come
se la musica non potesse essere invece uno strumento di guadagno conoscitivo, che conduce a una migliore comprensione di come ci rapportiamo alla realtà esterna al nostro corpo.
Le gerarchie culturali
Paradossalmente, è proprio quello che manca in questo libro a renderlo una testimonianza interessante. Ci mostra come nel mondo della performance sopravvivano
caparbiamente stereotipi tardo-romantici (l’etnologia tedesca parlava in questi casi di Versteinerung) che la filosofia dell’arte e le scienze sociali hanno abbandonato da decenni (si pensi
all’etnomusicologia, alla sociologia della musica, ai cultural e gender studies, all’ecomusicologia).
Ma nell’ambiente dell’insegnamento musicale il tardo romanticismo si riproduce ancora e, attraverso le numerose interviste rilasciate dai musici di turno ai
mass-media, diventa nell’opinione corrente estetica pop. In altre parole, nel libro di Bahrami, troviamo una difesa appassionata delle gerarchie culturali dell’ambiente sociale che maggiormente
tiene a separare quella che una volta si definiva Hochkultur da tutto il resto.
Quando ciò avviene da parte di un Persiano, si intuisce come la ricostruzione di identità, motivata dal desiderio di integrarsi pienamente in Europa, richieda di
sposare gerarchie culturali che godano di prestigio e non quelle di ambienti marginali. È comprensibile.
Chi mai vorrebbe vivere in un’altra cultura acquisendo idee e atteggiamenti che in quella cultura non sono prestigiosi?
Rimane il fatto sociograficamente affascinante che musicisti contemporanei continuino a pensare la musica sulla base di categorie formulate nel corso dell’Ottocento
(autore, opera, giudizio dei posteri, canone classico), staccandola dal contesto che le dava senso.
La sfida di contestualizzarla e vederla alla luce del senso che aveva per i contemporanei è certamente impegnativa, ma non giustifica l’utilizzo della musica di
epoche trascorse come semplice manichino su cui appendere gli abiti più demodé del nostro guardaroba intellettuale.
La categoria del sublime
Consegnare Bach – o qualunque altro autore – alla categoria del sublime, non è saggio, perché equivale a fraintendere ciò che la sua musica era per lui stesso. Ma
certamente è vero che Bach, come nel caso di Bahrami, può anche salvare la vita.
Ogni musica che si riveli congrua al nostro vissuto e appoggi, per qualsivoglia ragione, le nostre esigenze esistenziali può riuscirci.
A chi scrive queste righe la vita fu salvata non da Bach ma, invece, da Jimi Hendrix.
Questa, naturalmente, è tutta un’altra storia. Non ci scriverò su un libro, perché chiaramente non interesserebbe a nessuno.