M. Sorce Keller, ”Echi del melodramma nella tradizione orale italiana e germanica”, in Musica colta e musica popolare (Atti del convegno della "Società Italiana degli Autori ed Editori", Varazze 9 giugno 1991), Roma, SIAE 1992, pp. 187-192.

Ripubblico questo scritto antico, praticamente introvabile, perché - mi pare - contenga alcune informazioni curiose e poco note.


1. Oralità e scrittura: un’antinomia imperfetta

 

Gli studiosi della Questione Omerica (da Vico al Wolf al Lachmann) considerarono l’alternativa tra oralità  e scrittura come una distinzione di carattere binario. Detto altrimenti: per loro una poesia era scritta - oppure non lo era. Più recentemente, coloro che hanno affrontato questa problematica, hanno cominciato a rendersi conto di quanto sia difficile operare una netta distinzione tra le due condizioni. Oralità e scrittura, infatti, sono solo due modalità estreme – e non mutuamente esclusive – del manifestarsi di una tradizione, letteraria, musicale, o d’altro genere. Tra ”oralità” e ”scrittura non è facile tracciare una netta linea di demarcazione, perché si tratta di quelli che Max Weber definiva ”tipi ideali” (quasi mai esistenti nella realtà delle cose) all’interno dei quali infiniti casi intermedi sono possibili. Per essere più precisi, anzi, mentre sono esistite (ed esistono ancora) tradizioni musicali esclusivamente orali (l’oralità sarebbe allora, più che un ”tipo ideale”, un vero e proprio tipo ”reale”) non esistono invece tradizioni musicali esclusivamente scritte; non esistono tradizioni in cui la generazione, la trasformazione o la comunicazione di un evento musicale non si appoggi – anche parzialmente – a comportamenti appresi per “contatto” o, per dirla altrimenti, attraverso oralità  e gestualità .

2. ”Ascese” e ”discese”

 

Nel mondo della musica, in cui è consueto parlare di ”tradizioni colte” (caratterizzate da scrittura, teorizzazioni esplicite e professionismo compositivo-esecutivo) e di ”tradizioni popolari” (che mancherebbero di tali caratteri), si è ben consapevoli di come alla tradizione colta siano sempre pervenuti echi e riflessi di musiche generatesi nell’ambiente orale. Anche le relazioni presentate a questo convegno mettono in luce interessanti aspetti del fenomeno; sono processi, che spesso si dicono di ”ascesa” (dal mondo dell’oralità a quello della scrittura). Si parla invece di ”discesa” quando materiale musicale colto viene ricevuto in un ambiente orale. I due termini, a cui non manca una certa efficacia descrittiva, esprimono un po’ il pregiudizio che esista un livello alto e un livello basso e che il mondo dell’oralità  appartenga, appunto, a quest’ultimo. Soprattutto però essi non tentano di evidenziare come sia in caso di ”ascesa” che di ”discesa” intervengano processi trasformativi che molto hanno a che fare col processo compositivo. Per questa ragione preferisco parlare di ”oralizzazione” quando materiali colti vengono metabolizzati da una tradizione orale e di ”letterarizzazione” nel caso contrario.

In questa mia relazione esporrò alcune considerazioni proprio su fenomeni di oralizzazione avvenuti in paesi diversi che, credo, mostrano bene quale grado di diversità  essi possano manifestare.

3. Cosa avviene nei paesi di lingua tedesca

 

Nel suo bel libro sulla musica del periodo romantico Alfred Einstein ricorda come a Brahms fosse capitato di vedere che uno dei suoi Lieder (“Im stiller Nacht”) era riapparso anonimamente in alcune raccolte di canti popolari (1). Sull’atteggiamento e il rapporto che ebbe Brahms con il Volkslied ci sarebbe molto da dire. Qui basti notare che egli fu molto gratificato dal pensare che una sua composizione potesse vivere nella musicalità collettiva del mondo germanico. Se questo Lied di Brahms fosse effettivamente pervenuto in un ambiente orale e, circolando in esso, avesse iniziato quello che Walter Wiora chiama appropriatamente zweitens Dasein (un secondo modo di essere) – non è dato sapere. Ciò è peraltro possibile dato che numerosi casi simili sono ben noti. Si sa, per esempio, che una graziosa ninna nanna di Carl Maria von Weber (“Schlaf’ Herzens Söhnchen, mein Liebling bist du”) è generalmente nota in Germania come canto popolare e come tale viene appresa e diffusa (2). Lo stesso caso si è verificato per un Lied di Schubert (“Am Brunnen vor dem Tore da steht ein Linden Baum” da Winterreise)(3). Numerosi altri esempi tedeschi si potrebbero citare perché  quell’ambito culturale, forse più  di altri, ha sviluppato una tradizione musicale colta in grado di raggiungere persone e musici che non appartengono all’ambiente sociale che l’ha generata. Nei paesi germanici sopravvissero a lungo numerose piccole corti (più rurali che urbane), musicalmente alquanto attive. La “risonanza” della musica prodotta in questi centri – favorita dall’alfabetizzazione musicale che conseguì  alla Riforma protestante – contribuì  a far sì che la tradizione orale più  che altrove potesse vivere in simbiosi con quella colta. Per dirla altrimenti: a tutt’oggi la musicalità tradizionale, diciamo, di un agricoltore bavarese si sintonizza assai più  facilmente sullo stile musicale di Haydn o Schubert di quanto quella di un contadino marchigiano o lombardo, possa sintonizzarsi sulla stile di Verdi o Mascagni.

Rimandando ad altra sede la discussione di quante e quali cause abbiano contribuito a dare alla cultura tedesca questo suo particolare carattere, rimane il fatto che proprio in quei paesi si incontrano frequentemente melodie “popolari” che, pur in parte trasformate dalla trasmissione orale, possono facilmente essere ricondotte alla penna di noti compositori (ho già  citato il caso di Weber e Schubert, ma occorrerebbe aggiungere ad essi anche i nomi meno noti di Johann Adam Hiller, Jan Stefani, e numerosi altri). Accennerò brevemente all’interpretazione che gli stessi tedeschi diedero del fenomeno. Secondo Franz Magnus Boehme (1827ª1898), tra ambiente letterato e ambiente orale si verificherebbe una specie di ciclo retroattivo (4), vale a dire: quella che lui chiamava “vera musica popolare” (perdoniamogli la terminologia romantica) nascerebbe prima della musica d’arte ma, successivamente, quando una società  genera un ambiente letterato, questo produrrebbe canti di imitazione popolare (volkstümliche Lieder). In una fase ancora ulteriore sarebbe invece il “popolo” (lo strato meno culturalizzato della società ) ad assimilare progressivamente la musica prodotta dall’alta cultura fino a far scomparire del tutto la musica tradizionale precedentemente in circolazione. Saremmo di fronte, secondo Boehme, quasi ad un processo di tesi, antitesi e sintesi, che riflette nel mondo folklorico una versione prosaica di quell’idea di “morte dell’arte” che ha trovato poi, in coloro che vedono nei mezzi di comunicazione di massa semplici agenti omogeizzatori, più  recenti profeti. Comunque, la visibilità  dei fenomeni di oralizzazione, in Germania, indusse i folkloristi della scuola positivista, quelli della cosiddetta Rezeptionstheorie (John Meier e Hans Naumann in primo luogo) a credere che nella Volksmusik non vi fosse altro che gesunkenes Kulturgut (discesa di prodotti dell’alta cultura). Si sarebbe trattato, secondo loro, di un tipo di “discesa” (a guardare il termine tedesco pare quasi si tratti di uno “sprofondamento”) che implicherebbe addirittura una considerevole misura di distorsione o di degrado, come risultante di zersingen (usura generata dal cantare e “ri-cantare” senza riferimento alla pagina scritta)(5). Uno dei sostenitori della Rezeptionstheorie, E. Hoffman-Kreyer, arrivò addirittura ad affermare “Das Volk produziert nicht, es reproduziert nur” (il popolo non produce, riproduce solamente). Si sosteneva così la sostanziale non-creatività dei ceti sociali illetterati. La Rezeptionstheorie non comprese però che la “recezione” non è affatto un processo passivo e meccanico ma, al contrario, una attività selettiva in cui gusto, senso della forma, e generale atteggiamento nei confronti dell’arte si esplicano creativamente (Phillips Barry, Maud Karpeles, Bogatyrev-Jakobson, Arnold Hauser, ecc.)(6). Il cosiddetto zersingen non è quindi altro che l’espressione visibile di un processo che di necessità  riplasma un prodotto musicale originariamente estraneo in un altro che, a metamorfosi avvenuta, può a buon diritto convivere con quelli che già da tempo fanno parte della tradizione di accoglienza. I territori di lingua tedesca, comunque, non sono i soli ad avere visto il verificarsi di visibili fenomeni di oralizzazione tanto è  vero che Rodney Gallop, per citare solo uno degli studiosi che operarono in altre parti d’Europa, credette che la Rezeptionstheorie spiegasse molte cose del folklore musicale francese, greco e di quello dei territori baschi. Non sono questi, tuttavia, i casi su cui desidero soffermarmi. Mi interessa, invece, dedicare un po' di attenzione al caso italiano.

 

4. “Oralizzazione” in Italia

 

Fenomeni di oralizzazione si verificano anche in Italia – pur se in misura e forme differenti rispetto al mondo germanico. Riferendomi proprio all’Italia, io stesso ebbi modo anni fa di occuparmi di melodie operistiche, anche di autori ben noti, che circolano attualmente nella tradizione orale. Nel caso da me esaminato si trattava di un’aria di Donizetti (da L’elisir d’amore) e di una di Verdi (da I due foscari; entrambe raccolte in Trentino). Queste arie, naturalmente, nella loro nuova ambientazione, subivano modifiche funzionali a renderle compatibili col resto del patrimonio melodico di quella regione (7): una specie, non di zersingen ma piuttosto di streamlining (snellimento), consistente, tra l’altro, nel limare ogni traccia di modulazione (8). Questi esempi, e altri simili, aggiungono interessanti elementi che aiutano a meglio comprendere la storia della diffusione e della ricezione del melodramma italiano. 

Uno studio di Roberto Leydi, dedicato appunto alla “diffusione e volgarizzazione” dell’opera italiana, mostra assai bene quanto capillare sia stata la sua penetrazione (9). Fu grazie all’alto grado di disseminazione di questo repertorio che melodie d’opere famose (e talora anche di opere non particolarmente celebri) filtrarono, per così  dire, nella tradizione orale. Nel Canton Ticino per esempio, lo riferisce Piero Bianchi, anche testi liturgici vengono talora cantati su arie operistiche (10). Questo tipo di scambi o, se preferiamo, di filtraggi, si verifica non solo tra ambito letterato e ambito orale (e viceversa) ma anche tra ambiente letterato e quei repertori intermedi che alcuni definiscono ”semi-orali” (perché  in essi la notazione svolge solamente un ruolo accessorio). Uno di questi è sicuramente la pop music (11). Di pop music ne esistono numerosissimi generi di cui alcuni sono locali al massimo grado; pensiamo, per esempio, originariamente, alla canzone napoletana).

Simile, in quanto a localizzazione, è il caso dei cori alpini, tanto diffusi nel Trentino, quei cori che –  per intenderci – si rifanno come modello al Coro della SAT. Particolarmente interessante è il modo in cui essi interagiscono con la tradizione orale della regione. Esistono infatti in Trentino ”canzoni (entità testual-musicali), come pure sole melodie (o semplici frasi o segmenti melodici), che circolano oramai sia nell’ambito orale che in quello corale. Forme particolari di variazione melodica e testuale si verificano prima con gli scambi tra l’ambito orale e quello corale, a poi con la ”ritransizione” di alcuni di questi materiali, quando essi ritornano all’ambito orale da cui originariamente provenivano. Quando una canzone intera ritorna all’oralità dopo essere stata “presa a prestito” dai cori alpini si nota in essa: 1. un decrescere della variabilità  melodica tipica  della musica trasmessa oralmente, dato che la versione ”fissata dai cori diviene ben presto la ”sola versione a circolare anche nell’ambiente orale (il cantore tradizionale messo di fronte ad un modello onnipresente non può fare a meno di imitarlo con progressiva approssimazione): 2. una ”contrazione del testo” (e quindi del suo contenuto narrativo) e, infine, 3. una “progressiva rigidità ritmica” (per usare la terminologia di Bartók, dal “parlando-rubato” si passa al ”tempo giusto);  4. un’associazione stretta tra specifiche melodia e particolari contenuti narrativi (che altrimenti in quel territorio non necessariamente si verifica)(13).


5. Stati Uniti

 

Prima di avviarmi alla conclusione vorrei accennare ad alcuni aspetti di vita marginale del melodramma in quella nazione che sembra essere (almeno a livello di cultura di massa) la meno congeniale a questo genere: gli Stati Uniti. Se è vero che oggigiorno il melodramma negli Stati Uniti occupa un posto importante nell’ambiente della cultura musicale di élite (ed è ignoto in ogni altro ambiente) è  anche vero che nel secolo scorso esso (con modalità sui generis) fu vicino a quel mondo popolare urbano, di reddito medio basso, che ascoltava musica leggera (pop music dovrei dire).

Nelle colonie inglesi, nel mezzo secolo che precedette la Dichiarazione di Indipendenza del 1776, il melodramma era – di tutti generi musicali colti – certamente il più  popolare (14). Nell’Ottocento poi questa popolarità dell’opera si allargò  in misura tale da dare luogo a fenomeni di scambio con l’ambiente della musica di consumo.

Non è un fatto dei più  noti credo, che nell’Ottocento, negli Stati Uniti, molte melodie di canzoni di buon successo erano stilisticamente simili alle arie dell’opera italiana e, in qualche caso, esse erano addirittura letteralmente prese a prestito da opere famose. Furono gli editori a rendersi conto ben presto dell’esistenza di un mercato per canzoni in lingua inglese, basate su arie d’opera -a partire da quella che pare sia stata la prima, un brano intitolato “Here we meet, too soon to part”, del 1818, la cui melodia proviene dal Tancredi di Rossini. Fu successivamente, a partire da circa il 1825 che canzoni più  o meno direttamente ricavate da opere di Rossini, Bellini e Donizetti, e altri compositori italiani, divennero dei ”best sellers nel campo degli spartiti per pianoforte e canto-piano (15). Almeno una dozzina di queste canzoni derivano dalla Norma di Bellini e, quasi altrettante, da ”La Figlia del Reggimento di Donizetti. Esse rimasero in circolazione fino a quando, verso la metà  del secolo, cominciarono ad apparire canzoni basate su arie di Giuseppe Verdi. “La donna e mobile” dal Rigoletto divenne “Over the Summer Sea”, “Ah, che la morte” dal Trovatore divenne “Ah, I have Sighed to Rest Me”, “Deh, libiamo” da La Traviata divenne infine “Gaily Through Life I wander” (16). Paradigmatico al riguardo (per darci un’idea di come il mondo della musica leggera fosse legato al melodramma) è il caso di Henry Russell (1812-1901), il più  importante compositore di canzoni in America prima di Stephen Foster (1826-64), che cominciò  la propria carriera musicale come “bambino soprano” e che sosteneva di avere studiato in Italia con Rossini (17).  Alcune sue canzoni assomigliano a melodie belliniane (18). Anche le canzoni di John Hill Hewitt (1801-1890), autore di innumerevoli brani di successo durante la prima metà  dell’Ottocento (anche se egli non arrivò  mai a sostenere di aver studiato con maestri italiani...) assomigliano ad arie di melodramma non meno di quelle di Russell. Lo stesso Stephen Foster, del resto, aveva indubbiamente gran familiarità  con la musica operistica come mostra chiaramente lo stesso “Beautiful dreamer” - la sua canzone più nota (dopo “Oh, Susanna”). Questo particolare tipo di pop music nutrita di melodramma circolò a lungo Negli Stati Uniti, proprio nell’ambiente di quei musicisti che suonavano ad orecchio e che quindi, per dirla altrimenti, vivevano almeno in parte in una dimensione musicale orale. Quanto di questa pop music si sia successivamente travasata in altri repertori semiorali, o puramente orali, ancora in circolazione, attende di essere verificato. Che ulteriori travasi ci siano stati pare quasi certo. Basti osservare, anche in modo impressionistico, come le armonizzazioni del jazz degli anni‘30 e ‘40 (incrostate di accordi di settima la cui funzione è  sostanzialmente coloristica) ricordino tanto la musica di Puccini, un compositore che pure godette di grande popolarità  negli Stati Uniti, anche nell’ambiente dei musicisti di jazz o da night club.

 

7. Conclusione?

 

Quale conclusione si può trarre dai casi, tanto diversi, sui quali ho riferito sinora? Credo, in primo luogo, che ci aiutino a ricordare che i processi di ”oralizzazione”, con la loro onnipresenza, svolgono un ruolo importante nella vita di numerosissime tradizioni. Quando poi si esamina l’entità delle trasformazioni che essi richiedono, tali processi aiutano a comprendere come alcuni repertori riescano a mantenere una condizione di relativa stazionarietà, di “omeostasi”, ammortizzando influenze che toccano aspetti periferici del loro funzionamento e come mai altri, a poco a poco, perdano l’identità  che li contraddistingue per dare vita a repertori nuovi.


Termino allora dicendo che per chi come me tanto ama il melodramma italiano, è  consolante pensare che anche se la sua fase generativa è oramai conclusa, esso vive ancora nell’alimento che ha dato ad altri repertori e tradizioni musicali per le quali io sento altrettanto trasporto; un trasporto che trova la sua ragione in quello che essi mi ricordano del passato e in ciò che, in aggiunta, essi mi dicono della contemporaneità.

 

Note

 

1. Alfred Einstein, Music in the Romantic Era, New York, W. W. Norton, 41.
2. Walter Wiora, Europaischer Volksmusik und Abendlandische Tonkunst, Kassel,
    Himmenthal 1957.

3. Boehme fu l’autore di raccolte importanti quali: Altdeutsches Liederbuch, Lipsia
    1877, Deutscher Liederhort (con L. Erk), Lipsia 1893-94 (reprint Olms,
    Hildesheim 1962) e, l’opera che più direttamente ci interessa in questo
    momento, Volkstumliche Lieder der Deutschen.

4. Il termine corrispondente adoperato dai folkloristi inglesi fu wearing down;
    diverso e di ben altro significato il termine core-reduction che indica come dopo
    numerose esecuzioni un canto narrativo possa ridursi al suo nucleo drammatico
    essenziale.

5. Occorre naturalmente distinguere tra musica e testo dato che Hoffman-Kreyer
    si riferiva specificamente a quest’ultimo. Le espressioni letterarie distorte di
    questi testi rendono plausibile la teoria.

6. Marcello Sorce Keller, “”Gesunkenes Kulturgut and Neapolitan Songs: Verdi and
    Donizetti, and the Folk and Popular Traditions”, in Atti del XIV Congresso della
    Società ”Internazionale di Musicologia
, Vol. III Free Papers, 401-403.

7. Si tratta di un processo che forse Tartini fu il primo ad commentare, cfr. Pierluigi
    Petrobelli, “Tartini e la musica popolare”, Chigiana, XXVI-XXVII(1969-70),
    nuova serie, no. 6-7, 443-450. Una sistematica eliminazione delle modulazione
    (oltreché  una “diatonicizzazione” della melodia) avviene quando gli organetti,
    strumenti costituzionalmente diatonici (nelle Marche p. es.), prendono a
    prestito melodie dalla ”hit parade.

8. Roberto Leydi, “Diffusione e volgarizzazione”, in Storia dell’opera italiana, Vol.
    VI (Teorie e tecniche, immagini e fantasmi), 303-392.

9. Pietro Bianchi, ”Canti liturgici popolari nel Ticino Società Svizzera per le
    Tradizioni Popolari”, Serie Discografica no. 1, FM 84022, 1984.

10. Possiamo intendere per pop music la musica concepita per essere diffusa con i
    mezzi di comunicazione di massa e che, pur essendo spesso scritta (non
    ritenendosi essenziale la fedeltà  ad un originale), viene spesso arrangiata e ri-
    arrangiata secondo la necessità  del momento e può  essere anche eseguita “ad
    orecchio”.

11. Cfr. Peter Manuel, Popular Musics of the Non-Western World, Oxford University
    Press 1988.

12. Questi sono quindi aspetti parziali di un fenomeno che altrove ho chiamato
    ”re-introduzione e che altro non è se non un “rinforzo con variazione” di
     circolazione pre-esistente. Per una più ampia trattazione di questo argomento
     vedi Marcello Sorce Keller, Tradizione orale e corale: ricerca musicologica in
     Trentino
, Bologna, Forni 1991.

13. Cfr. Charles Hamm, Music in the New World, New York, W.W. Norton 1983, 83-
     110.

14. Cfr. Hamm, op. cit, 197.
15. Charles Hamm, Yesterdays, New York, W.W. Norton 1979, 87.
16. Hamm, Music in the New World, op. cit., 188.
17. Hamm, Yesterdays, op. cit., 219.
18. Hamm, Yesterdays, op. cit., 219.